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Edmondo Solmi. Su una probabile gita di Leonardo da Vinci in Genova il 17 marzo 1498 per visitarvi quel porto. [in] Archivio Storico Lombardo. Giornale della Società Storica Lombarda. Anno xxxvii, Vol. xiv, Fasc. xxviii, 1910, pp. 439-450. - Anche: Edmondo Solmi. Scritti vinciani. Soc. Anon. Editrice “La Voce”. Firenze 1924, pp. 139-151.
Gerolamo Calvi ha pubblicato il Codice di Leonardo da Vinci della Biblioteca di Lord Leicester in Holkham Hall [1] che viene a coronare un’impresa la quale fa onore alla benemerita casa editrice di Milano e all’egregio Leonardista.
Questa pubblicazione del codice di Leonardo da Vinci viene a recare un importante contributo alla conoscenza delle dottrine naturali del grande italiano, e a darci nuovi e impreveduti schiarimenti sulle vicende della vita dell’artista e scienziato universale.
Questo manoscritto, osserva il Calvi, è il più notevole documento di quel lavoro, pel quale il maestro, raccogliendo da appunti e ricordi senza numero gli sparsi materiali che potevano concorrere alla formazione di un trattato, passando in rassegna gli argomenti toccati, arricchendoli di nuove osservazioni, moltiplicando e sviluppando per via i suoi concetti, si preparava a trarre dal cumulo delle sue note e dall’inesauribile tesoro della sua viva esperienza una «opra ordinata» per ciascuna delle parti dell’enciclopedia scientifica, alla quale aveva atteso.
Più comprensivamente degli altri, questo quaderno ci mostra, nello sforzo verso una forma organica, definitiva, pubblica, da darsi alla trattazione, nei parziali tentativi di distribuzione della materia, nelle indicazioni relative al numero delle «proposizioni», dei «casi» e delle «conclusioni» contenute nelle singole pagine, nei richiami a teorie precedenti, nelle questioni trattate da un punto di vista polemico, nell’uso caratteristico dei procedimenti, che servono all’induzione, nei corollari d’ordine pratico, quale doveva essere per Leonardo lo sviluppo d’una «scienza», com’egli la intendeva, in un tempo, in cui la elaborazione del suo pensiero, giunta a un notevole grado di complessità, presupponeva una rete abbastanza fitta di collegamenti tra le discipline da lui coltivate, e permetteva riferimenti sicuri ai principî che le governano.
Le norme seguite dal Calvi nella trascrizione del codice Leicester sono in gran parte, e con perfezione ancora maggiore, quelle a cui si è attenuto Giovanni Piumati nella pubblicazione del Codice sul volo degli uccelli e dei fogli Dell’Anatomia. Notevole l’aggiunta di utili note nella fine del volume e di un «indice analitico» che renderà più agevole l’uso del libro agli studiosi.[2] Questa insigne fatica di Gerolamo Calvi viene a prendere un posto onorevole fra le consimili del Piumati, del Beltrami e del Ravaisson-Mollien.
Il codice originale, che porta la segnatura 699 nella biblioteca di lord Leicester, vi pervenne, probabilmente, per acquisto fattone da Thomas Coke, più tardi lord Leicester (nato nel 1697), durante uno dei suoi soggiorni giovanili in Italia. È formato da 36 fogli numerati e da 72 pagine di fitta scrittura. È notevole il fatto che tre copie di una trascrizione, compiuta da Francesco Ducci, bibliotecario nella Laurenziana sulla fine dei secolo XVII, si conservano nella biblioteca di Holkham Hall, nella biblioteca granducale di Weimar e presso il prof. Mario Cermenati in Roma.[3]
Il manoscritto non contiene appunti datati, dai quali sia possibile desumere l’anno o gli anni della compilazione. Per una serie di acute considerazioni, che qui sarebbe inutile riferire, il Calvi ha motivo di preferire il biennio 1505-1506, come data di quelle scritture, che tuttavia in parte risalgono a tempi anteriori, perchè non fanno che riassumere in maniera sistematica e relativamente ordinata le ricerche già compiute.
Questa data può venire accettata come approssimativa. Ciò in cui non convengo col Calvi è che il codice sia stato scritto esclusivamente in Firenze, e non in Milano. Propendo a credere che sia stato scritto parte nell’una e parte nell’altra città. Ammessa anche come provata la data 1505-1506, bisogna notare innanzi tutto, per non cadere in contraddizione evidente, che se nel 1505 il Vinci si trovava effettivamente in Firenze, il 30 maggio del 1506 tornava a Milano, dove rimaneva sino alla fine del luglio 1507. Se aveva cominciata la compilazione del codice in Firenze, egli dovette di necessità averla continuata in Milano, dopo il 30 maggio del 1506, e fors’anche ripresa di nuovo in Firenze dopo il luglio 1507.
Convengo col Calvi che, quando nello sviluppo ardito e luminoso della sua teoria geologica, quale è esposta nel codice Leicester, Leonardo contempla la Toscana, egli fa un’esposizione abbastanza precisa delle trasformazioni della valle dell’Arno, con indicazioni accurate dei luoghi, e con fresche impressioni di quel territorio a lui famigliare, dove si trovano il natio borgo di Vinci, Collegonzi, Capraia, il Monte Albano, e che si estende, da un lato, verso la Val di Nievole, ed ha, a poca distanza, dall’altra parte dell’Arno, il sasso della Golfolina, Montelupo e S. Miniato al Tedesco.
Ma più che dalle osservazioni ora ricordate, alle quali non si può annettere certamente un valore decisivo, sembra che la presenza di Leonardo in Toscana, al tempo della compilazione del codice Leicester, sia confermata da que’ disegni marginali, che più volte recano, alle proposizioni del testo, esempi attinti all’osservazione dell’Arno e de’ suoi affluenti.
Sono gli schizzi eseguiti con riferimento preciso, che si trovano sui fogli 13 recto, 15 recto e 16 verso. Questi schizzi ed appunti stanno nelle sette carte corrispondenti ai fogli dal 18-19 al 12-25, che contengono il primo e numericamente più importante nucleo dei «casi d’acque e di sua fondi». Ma Firenze, non esclude, nel caso nostro, Milano.
Queste ultime precise indicazioni servono, a parer mio, a dimostrare che la compilazione del codice Leicester fa cominciata in Firenze. Altri indizî stanno a far supporre che fu proseguita in Milano, dopo il 30 maggio 1506 e forse terminata in Firenze, dopo il luglio 1507. Ad ogni modo, questo manoscritto essendo un «raccolto tratto da molte carte», si capisce che l’ultima parola non potrà esser facilmente detta nè per gli anni nè per il luogo ove fu composto.
Scrive il Calvi in una nota a p. IX: «A me sembra probabile che lo Sforza si valesse tosto o tardi di Leonardo nei preparativi di difesa contro la temuta invasione francese, della quale il pericolo si era già fatto imminente al principio dei 1497, allorchè i suoi possedimenti si trovarono attaccati in Liguria e minacciati dal lato di Alessandria».[4] A conferma di questa ipotesi mi sia concesso di riferire alcuni fatti, o taciuti o sfuggiti al Calvi, che vengono a dimostrare la presenza del Vinci in Genova nel marzo 1498.
Nel giorno 12 del marzo 1496 Lodovico il Moro, in apparenza per diporto, e in realtà per dare disposizioni in ordine alle fortezze e alla difesa dello stato contro la minacciata invasione francese, si incamminava alla volta di Genova con tutto il suo seguito e, com’era naturale, dato lo scopo del suo viaggio, coi suoi «ingeniarii ducales». Andò a Vigevano e a Voghera, poi a Tortona, dove fu incontrato da quattro ambasciatori genovesi, e quivi vide «el disegno de la forteza li volemo fare» (Lett. di Lodovico Sforza al cardinale d’Este); quindi procedendo per Borgo de’ Fornari, Busalla, Pontedecimo, Cornegliano, a dì 17, sabato «a hore 17 (scrive il Sanuto), el ducha de Milan era intrato in Zenoa, la qual hora have del suo astrologo maistro Ambrosio de Rosate, dal conseio dil qual mai si parte. Et era stato molto honorato da’ zenoesi, et a la porta di la terra da Agustino Adorno, governador ducal, hessendo el duca receputo sotto l’ombrella come lhoro vero signor. Li presentono le chiave de la terra, demum, andono a San Lorenzo, chiesia cathedral, dove dismontono, et poi li accompagnono tutti al palazo, dove era sumptuosamente preparato per la sua habitatione. Et, chome Marco Lipomano orator nostro scrive, di questa andata ivi del ducha variamente se ne parlava».[5] “Alozò in palazo di San Zorzi, dove sta el doxe, a spexe di San Zorzi”.[6]
Nel solenne corteo ultimi venivano lo conte di Melcio col priore di Novarra et gradati li Corseri nostri, secondo l’ordine suo, et poi li Camareri nostri di Camera cum li altri gentilhomini nostri di majore conditione; el loco seguente tra li secretarii de li oratori et nostri et de li Medici, cum la Cancellaria nostra et poi altra multitudine: cum questo ordine siamo intrati fin alla porta di la cità fra multitudine grandissima di populo et cum segni infiniti di gaudio, quale facevano anche le galee napolitane et nostre, acostezandone continue con soni de trombe et arteliarie, come fece anche poi el porto et Castelletto vicino alla porta di Santo Thoma» (Lett. di Ludovico Sforza al cardinale d’Este).
Una caratteristica coincidenza, sfuggita fin qui a tutti gli indagatori vinciani, porta a ritenere che Leonardo da Vinci si trovasse in Genova quel dì appunto col seguito di Lodovico il Moro. Il cronista Bartolomeo Senarega comincia la narrazione dei fatti di quell’anno, con queste parole: «Huius anni principio nonagesimi octavi supra mille et quadringentos magna tempescas maris exorta est Lybico saeviente, per quam pars molis paulo ante constructae diruta est.
Creati novi patres, quo citius, quod collapsum erat reficeretur, ne nova superveniens tempestas maiorem ruinam afferret».[7] E il cronista Giustiniani ripete quasi testualmente: «L’anno di mille quattrocento novanta otto, nei principio, fu grande tempesta e procella marittima, e rovinò una parte della fabbrica del molo, qual si era fatta l’anno passato, e furono fatti nuovi padri del comune, acciocchè con diligenza si rifacesse quello ch’era rovinato, e si fortificasse il rimanente».[8] Ora è notevole che Leonardo rammenti nelle sue carte la «ruina fatta da una parte del molo di Genova» con un particolare poi così minuto da rendere quasi incredibile che egli non abbia visto coi propri occhi quella ruina nel 1498.
Una delle prime cure di Lodovico il Moro, appena liberato dalla turba di coloro, che erano incaricati di riceverlo, fu appunto quella di recarsi a vedere il porto per cercar modo coi propri ingegneri ducali di porvi riparo. «Licenziati il antiani (scrive lo Sforza stesso al cardinale d’Este il 18 marzo): descendemmo de pallatio, et andassimo al Mollo, premissa la guardia, et restando noi domesticamente fra el signor governatore, et messer Zo. Aloysio, et messer Zo, cum li altri principali citadini. Saria impossibile narrare el concorso de omeni et done, per el quale apena se posseva passare per le strate, dimostrando piacere et desyderio mirabile de vederne et non satiandosi di rasonare tra loro con troppo grande contenteza et letizia».[9] Allo spettacolo della immane rovina il Moro andò prendendo accordi coi genovesi e cogli ingegneri di Milano per porre un riparo sollecito. «Conversus ad res nostras (scrive il cronista Senarega) Gallos piratas insequendos esse laudavit, impensae subvenit; darsinam refici iussit laudavitque;[10] donatusque nomine publico quatuor aurei pateris fuit».[11]
Mentre gli ingegneri esaminavano la rovina del molo, all’occhio esercitato di Leonardo si presentarono alcuni pezzi di ferro sottilmente trafilati dal colpo della gran massa granitica, che si era sprofondata sotto l’impetuoso soffiar della tempesta e sotto le onde dell’acqua marittima nel febbraio 1498. In tempo più tardo parlando di una sua invenzione per trafilare il ferro, il Vinci scriverà, ricordando quell’osservazione: «Il ferro trafilato da una ruina fatta da una parte del molo di Genova fu trafilato da minor potenzia di questa».[12] Questo ricordo incidentale del codice Atlantico con la sua stessa spontaneità e vivezza ci richiama a cosa effettivamente vista e sperimentata dal Vinci, e chi ha pratica del fare di Leonardo non tarderà a riconoscere che qui vien richiamato un fatto specifico e direttamente conosciuto.
Il 26 marzo il duca partì da Genova e ritornò a Milano. «Per lettere di Marco Lipomano, orator nostro apresso el ducha de Milan (scrive il Sanuto) se intese come esso ducha il luni, a dì 26 era partito da Zenoa, honorato molto da zenoesi, et ritornò a Seravale et Tortona, et demum andoe in Alexandria di la Paja, poi a Novara, come dirò di sotto. Et che da’ zenoesi li era sta donato dò basile et dò ramine tutte d’oro, et da’ savonesi bazili d’arzento. In tutto have doni per duchati zerca... milla. ‘Tamen’ che zenoesi erano rimasti mal contenti di questa sua andata, perchè speravano dovesse far altre cose».[13] «Il 5 aprile el ducha de Milan era in Alexandria di la Paja et voleva poi andar a Novara, et demum a Milano».[14]
Se noi non possiamo affermare che Leonardo fosse partito da Milano col Moro nel marzo, è certo che lo dovette accompagnare nel ritorno, perchè da un documento dell’Arch. di Stato di Milano risulta, che il Vinci si affrettava nel 20 aprile 1498 a riprendere i lavori della «saletta negra» «A la saletta negra se è facto quanto la comisse, non solo ficto nel muro la corona, ma mutatogli quella overo se è remutata tuta de misura, d’acordio Messer Ambrosio con Magistro Leonardo, per modo che la stae bene, et non si perderà tempo a finirla».
I manoscritti del Vinci ci conservano non pochi ricordi della Liguria e della via che dalla Liguria conduce a Milano. Nel piccolo libro tascabile L, che l’artista portò seco anche nei primi anni del secolo XVI, troviamo ricordato «Casale gienovese»,[15] che non è altro che un richiamo alla frazione del comune di Montoggio, che portava allora tal nome, provincia e circondario di Genova, mandamento di Staglieno.
Nello stesso manoscritto troviamo le parole: «Marcello sta in casa di Jacomo da Mongiardino»,[16] dove la parola Mongiardino accenna ad un piccolo comune ligure, poco distante da Genova, appartenente come il precedente alla famiglia de’ Fieschi.
Risalendo sempre più verso Milano, Leonardo ricorda «co’ di Ronco»,[17] una località presso Ronco Scrivia, dove l’artista si soffermò forse ad ammirare l’incantevole paesaggio ed il corso del fiume impetuoso.
In questo stesso codice Leicester Leonardo ricorda minute osservazioni fatte in Alessandria. «Alessandria della Paglia, in Lombardia, non à altra pietra da far calcina, se non mista con infinite cose nate in mare, la quale oggi è remota dal mare più di 200 miglia».
E rammentando cose vedute co’ propri occhi: «Ma come accomodereno noi (esclama quivi il Vinci) li coralli, li quali inverso Monte Ferrato di Lombardia essersi tutto il dì trovati intarlati, appiccati alli scogli, scoperti dalle correnti de’ fiumi? e li detti scogli sono tutti coperti di parentadi e famiglie d’ostriche, le quali noi sappiano che non si movano, ma stan sempre appiccate coll’un de’ gusci al sasso, e l’altro aprano per cibarsi d’animaluzzi, che notan per l’acque, li quali, credendo trovar bona pastura, diventan cibo del predetto nichio».[18] E sempre nel codice Leicester continua: «E se tu dirai, che, essendo tali nichi vaghi di stare vicini alli liti marini e che, crescendo l’acqua in tanta altezza, che li nichi si partirono da esso lor primo sito, e seguitorono l’accrescimento delle acque insino alla lor somma altezza; qui si risponde che sendo il nichio animale di non più veloce moto che si sia la lumaca fori dell’acqua - e qualche cosa più tarda, perchè non nuota, anzi si fa un solco, ove s’appoggia - camminerà il dì dalle 3 alle 4 braccia: adunque questo, con tale moto, non sarà camminato dal mare Adriano insino in Monferrato di Lombardia che v’è 250 miglia di distanza in 40 giorni - come disse chi tenne conto d’esso tempo».[19]
Lodovico il Moro, superando il Monferrato, dove apprese con gioia la notizia della morte di Carlo VIII, come narra il Sanuto, passò nella Lomellina.[20] E Leonardo ricorda sempre nel codice Leicester: «In Candia di Lombardia presso Alessandria della Paglia, facendosi per messer Gualtieri di Candia uno pozzo, fu trovato uno principio di navilio grandissimo, sotto terra circa a braccia 10, e perchè il legname era nero e bello, parve a esso messer Gualtieri di fare allargare tal bocca di pozzo, in forma che i termini di tal navilio si scoprissi».[21]
E subito dopo ci troviamo in luoghi nominati continuamente da Leonardo, quali Vigevano e Pavia, fin presso alle porte di Milano, dove ci conduce l’appunto: «Oriolo della torre di Chiaravalle, il quale mostra luna, sole, ore e minuti».[22]
Tutti questi ricordi segnano come una via diretta che da Genova guida a Milano, passando attraverso alla Liguria, ai confini del Piemonte e del Monferrato, per condurci, per la Lomellina, Vigevano e Pavia, a Chiaravalle e Milano. Sia che Leonardo avesse compiuta quella strada con Ludovico il Moro sia che l’avesse compiuta da solo, è certo che le tracce di un simile viaggio esistono nei manoscritti. È da notar anche che a proposito del flusso e riflusso Leonardo aveva osservato, nel codice edito dal Calvi, che in «Genovese non varia nulla», «in riviera di Genua non fa niente». E, ricordando un’amicizia forse cominciata nel marzo del 1498, scriveva: «Parla col Genovese del mare».[23]
Quando Leonardo scriveva il codice Leicester il suo sguardo era rivolto ai luoghi che si trovano verso la Liguria. Il Calvi stesso osserva, che «benchè non si tratti forse che di coincidenze causali, vale la pena di notare che parecchie delle reminiscenze dell’Italia superiore sono riferite a località, che si trovano al di là del Ticino». Oltre a Vigevano, a Candia Lomellina, al Monferrato, e ad Alessandria della paglia, il Vinci ricorda i fenomeni, ai quali diede luogo la formazione di un’immensa nuvola, che vide «già sopra Milano, inverso Lago Maggiore» e ricorda l’escursione al monte Rosa, che gli fornì una dimostrazione della causa dell’azzurro dell’aria.[24]
Se l’artista nel 1506, e forse anche nel 1507, attendeva ancora alla compilazione del manoscritto Leicester, niente di più naturale di questo irrompere di ricordi dei luoghi, che si trovano al di là del Ticino, dove accadevano eventi di straordinaria importanza storica, quale la sollevazione di Genova contro la Francia, incominciata nel giugno del 1506.
Poco dopo il 30 maggio del 1506 Leonardo, con la mente ancor piena delle memorie della sua Toscana, che abbandonava per poco tempo, giungeva in Milano e prendeva dimora nella casa di Carlo d’Amboise, signore di Chaumont-sur-Loire, e quivi rimaneva forse ininterrottamente fino al luglio del 1507. Lo Chaumont, governatore del ducato di Milano in nome di Luigi XII, durante tutto questo tempo era fortemente preoccupato, come dimostrano i dispacci che possediamo, dei gravi avvenimenti di Genova che, insofferente di freno, non poteva a lungo adattarsi alla soggezione francese, e nella privata e nella pubblica conversazione egli non restava di manifestare le sue ansie e rammemorare gli episodi di quella tremenda ribellione, che, incominciata nel giugno del 1506 non terminò che al 28 aprile 1507.
Più di una volta nella casa dello Chaumont, mentre Leonardo stava riordinando e compiendo i suoi appunti idraulici leicesteriani, erano giunte all’orecchio dell’artista le notizie dei confusi rumori di Genova, dei tumulti contro la Francia nei tenitori dalla Francia conquistati; e queste notizie si univano nella sua mente coi ricordi del passato, della Liguria, della Toscana e della Lombardia.
In Genova le relazioni d’odio o d’affetto verso la Francia avevano inasprito le inconciliabili dissensioni tra nobili e popolani.
Durante l’assenza di Filippo di Ravenstein, governatore, i popolani avevano accusato i nobili d’insolente superbia, ed una serie di successive sedizioni aveva mutato e rimutato il governo della città fino alla elezione a doge di Paolo da Novi ed alla vittoriosa discesa di Luigi XII. I Francesi vinsero il 26 e 27 aprile 1507 intorno alle mura di Genova, ed il 28 due ambasciatori della vinta città andarono ad umiliarsi dinanzi al re, il quale nel giorno appresso entrò in Genova, accompagnato dalle genti d’arme e dagli arcieri della guardia. Luigi xii procedeva pedone sotto il baldacchino, tutto armato, e brandiva uno stocco nudo. I fanciulli e le fanciulle vestite di bianco gli si prostrarono ai piedi lungo le vie e nelle chiese, implorando perdono. Ma egli fu inesorabile. Il 14 maggio ricevette il giuramento di fedeltà; abbruciò le convenzioni di Genova con Milano, ma ne confermò la sostanza sotto forma di privilegi, per dimostrare che la città era sua, e ne poteva disporre a suo arbitrio. Obbligò Genova al pagamento di duecentomila scudi, e fece punire i rivoltosi. Paolo da Novi aveva cercato rifugio in Pisa, ma di poi, essendosi imbarcato per recarsi a Roma, fu catturato. Condotto a Genova, venne decapitato e squartato il 15 giugno.
Che Leonardo avesse gli occhi rivolti alle sollevazioni contro la Francia nel 1506 e nel 1507, dimostra anche un notevole passo del codice Atlantico, rimasto sin qui inosservato, che si riferisce alla ribellione di Simon Arrigoni, che si era rifugiato in un castello della Valsassina, donde non si voleva sottomettere a nessun patto.
Simon Arrigoni è una delle più singolari figure che la storia di questo periodo ricordi. Quando nel 1498 Luigi XII cominciò ad accampare de’ diritti sul ducato di Milano, il re di Francia aveva fatta a Lodovico il Moro la proposizione di lasciargli godere il ducato sin ch’ei fosse vissuto, e per due anni ancora lo godessero dopo la sua morte i di lui figli, a condizione che frattanto egli sborsasse duecentomila ducati d’oro alla corona. V’era di più la condizione che, qualora Luigi XII non avesse avuto figli, non si turbasse il dominio dei successori dello Sforza. L’affare venne proposto nel consiglio del duca.
Il tesoriere ducale Landriano altamente opinò che mai si dovesse accettare un tale progetto, poichè con duecentomila ducati v’era abbastanza, a parer suo, per far la guerra per duecento anni al re di Francia. La bravata era senza fondamento; pure il duca vi si uniformò. Quando poscia ne venne in seguito la eversione totale dello stato, un gentiluomo milanese, che nominavasi Simon Arrigoni, affrontò l’adulatore Landriano, per cui lo stato e la patria, erano in rovina, e lo uccise. La casa dell’assassino fu messa a sacco dalla turba furente, e poi confiscata dal governo.[25]
Assoggettatosi poi al re di Francia, in favor del quale combattè contro il Moro con spirito di aspra vendetta,[26] e tolti all’incanto i dazi di Milano e fattone non piccola perdita, Arrigoni fu costretto a partirsi a guisa di fuggitivo, e si ritrasse in un suo castello, dove, facendo ricetto di ogni sorta di uomini pravi, devastava tutto il vicino paese, con grave spavento di quelle popolazioni e sopratutto dei Comaschi. Lo Chaumont, governatore di Milano, gli ingiunse di presentarsi a render ragione de’ suoi crimini, ma l’Arrigoni non volle ubbidire, e si fortificò nei proprio castello, dichiarandosi apertamente ribelle contro la Francia. «Et non volendo venire (scrive il cronista Dal Prato),[27] li fu mandato molta gente d’arme per prenderlo; ma, essendo il castello per l’altezza fortissimo, li tenne alcuni dì a bada. Ma a la fine (per inganno del capitano Jeronimo Paggio, il quale era seco nel castello) facto captivo, et menato a Milano, el giorno vigesimo septimo de Febraro (1507), fu tormentato, et quel proprio dì del mese di Marzo, su la piazza del Castello, vestito de velluto bruno con una collanetta d’oro, fu decollato, poi squartato, et posti i soi membri alle porte di Milano».
L’Arrigoni era stato fatto prigioniero a tradimento. Mentre egli se ne stava asserragliato nel castello, Gerolamo Paggio, suo capitano, lo indusse a far entrare di notte tempo e di nascosto di tutti i compagni un falso soccorso, consistente in un manipolo di armati incaricati di catturarlo. Se l’Arrigoni avesse potuto in quel momento chiamare in aiuto i suoi compagni e metter mano alle armi che aveva, forse si sarebbe salvato. Ma, sorpreso nella sua camera, solo, fu imbavagliato, legato e trasportato come prigioniero in Milano, per subirvi l’estremo supplizio. «Come quel Simon Arrigoni, qual ribellò al re di Francia et si tene nel suo castelo, (scrive il Sanuto), era stà da li soi preso, et dato in le man de francesi. Qual è stà conduto a Milan su uno cavallo, prexon; et menato in castello, è stà examinato subito da monsignor el gran maistro, et dal prexidente de Savoja, el qual par de dolor sia fuora de sè».[28] E dopo non molti giorni annunziava: «A Milan è sta taià pubblice la testa a quel Simon Rigoni, nominato per avanti, qual rebellò a Franza e fo squartado» (pp. 43-44).
Leonardo, scrivendo del modo di costruir le fortezze, perchè siano sicure da ogni assalto di nemici e di finti amici, si ricorda della cattura di Simone Arrigoni, della quale conosceva tutti i particolari come ospite dello Chaumont nel 1506 e 1507. «Che li provesionati (scrive il Vinci nel codice Atlantico, fol, 41 v.) possino esser battuti un dì e di notte dal castellano, a ogni sua requisizione; e, a questo fare, essi debbano dormire in abitazioni di sottile asse, sotto portici che abbino rettitudine e le bombardiere nelle fronti di tal portici, e questo è fatto per li soccorsi falsi, come fu chi tradì Simon Arrigoni».
Nulla quindi di strano se nel codice Leicester compilato per l’appunto in questi anni vi siano accenni a’ paesi che nel 1506 e 1507 s’eran ribellati alla Francia, benchè la maggior parte di questi accenni (convengo in ciò col Calvi) si riferiscano ai ricordi delle ultime vicende del tempo passato al servizio di Ludovico il Moro.
Su un’altra osservazione del Calvi mi preme richiamare l’attenzione degli studiosi, perchè assai interessante. «Nel documento del 25 gennaio 1503 [1504], pubblicato dal Gaye, concernente la convocazione ed i lavori di una commissione radunata allo scopo di dare un giudizio sulla collocazione più opportuna del David di Michelangelo, si ritrovano parecchi nomi scritti da Leonardo tra le annotazioni del fol. 191 r. del ms. del British Museum, e cioè, quelli del legnaiuolo Francesco Monciatto, dell’orafo Michelagnolo di Viviano, di Piero di Cosimo, di Andrea dal Monte a San Savino (del quale è segnalata l’assenza), di Simone del Pollajuoio, detto il cronaca, di Filippo e di Lorenzo dalla Golpaja, corrispondenti probabilmente questi ultimi ai due ‘Filippo e Lorenzo’ nominati nel fol. cit. del ms. del British Museum.
Per i nomi del Sansovino, di Michelangelo orafo e del Monciatto, cfr. anche il cit. fol. 120 r. del codice Atlantico. Nasce spontanea la supposizione che Leonardo possa aver scritto questi nomi, e annodato, o riannodato, queste relazioni all’epoca della riunione di quella commissione, cioè intorno o dopo il 25 gennaio del 1504». Questa osservazione è importante perchè i due passi leonardeschi citati contengono l’appunto tanto travagliato: «gramatica di Lorenzo de’ Medici».
Se veramente, come è probabile, quei due passi furon scritti dopo il 1504 (l’appunto «impara la multiplicatione dalle radice da maestro Luca»; dovrebbe quindi riferirsi al libro e non alla persona di maestro Luca, se si tratta veramente del Pacioli) viene a cadere l’unica obbiezione che impediva di riferire quell’appunto ad una grammatica prestata da Lorenzo di Piero de’ Medici, cioè l’obbiezione dell’età.
Edmondo Solmi.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] Milano, Casa editrice L. F. Cogliati, 1909, in-4 gr., pp. xxxiii, tav. 178, pp. 242.
[2] Calvi, Introduzione, pp. v e sgg.
[3] Calvi, op. cit., p. xxv e sgg.
[4] Calvi, op. cit., p. ix. Reputo più probabile che Leonardo facesse a Genova una gita, come si vedrà, rapida, secondo il suo solito. Mi sembra che, se avesse atteso a lavori lunghi, ce ne rimarrebbero maggiori tracce nei codici.
[5] Sanudo, Diari, vol. i, p. 904: «A dì 12 dito, el ducha di Milan partì di Milan per andare a Zenoa con li oratori et una bella compagnia, il numero di la qual et tutto ordinatamente di sotto sarà scripto. Et andoe a Vegevane, ‘demum’ dovea andar a Tortona et Seravale et Zenoa, et il sabato a hore 16 a dì 17 doveva intrar in la terra. Li honori il sarà fatti, scriverò di sotto il tutto particularmente, et il modo intrar. Et lassoe locotenente il cardinal fiol dil ducha di Ferara ‘olim’ suo cognato et arcivescovo de Milano».
[6] Sanudo, op. cit., vol. i, pp. 910-911. Nota «come vidi lettere di Zenoa, e advisava l’entrada dil ducha di Milan honorifica. Havendola sarà qui soto scripta».
[7] Muratori, r. i. s., xxiv, c. 563.
[8] Storia della repubblica di Genova, Genova, 1835, p. 590 e sg.
[9] Archivio di stato di Modena, Cancelleria ducale, copia.
[10] Muratori, op. e loc. cit.
[11] Cfr. anche Sanudo, op. cit., vol. i, p. 921: «Item, aveva visto quel arsenal et havea decreto farlo di novo»; p. 924: «Et che altra cossa non havea fatta se non chome scrissi, che havea dicto che zenoesi facessi l’arsenal, che lui se obligava far et tener 25 galle ivi; et armarle dil suo».
[12] Leonardo, Codice atlantico, fol. 4.
[13] Sanudo, op. cit., vol. i, p. 921: «Or dicto duca, a dì 26, el lune, si dovea partir di Zenoa et retornar a Milan».
[14] Sanudo, op. cit., vol. i, p. 927.
[15] Leonardo, Ms. L, f. 1 r.
[16] Leonardo, Ms. L, cop. r.
[17] Leonardo, Ms. L, cop. v.
[18] Leonardo, Codice Leicester, fol. 10 v.
[19] Leonardo, Cod. Leic., fol. 8 v.
[20] Sanudo, op. cit., vol. i, p. 927: «Da Milano vene dicta nuova per avisi del ducha a l’orator suo, et scrisse questa bona nuova, et poi disseno bona tutto questo faceva certificate etc. Adoncha il duca di Milan a dì 6 detto era tornato a Milano, dove vi stava con la corte».
[21] Leonardo, Cod. Leic., fol. 9 v.
[22] Leonardo, Cod. Atl., fol. 399 v.
[23] Leonardo, Cod. Leic., foll. 9 r., 23 r., 26 v.
[24] Leonardo, Cod. Leic., foll. 4 r. e 36 r.
[25] Sanudo, op. cit., vol. iii, p. 32. Per la lettera del 13 ottobre 1499 dà notizia «di certa possession tolta a Simon Rigon».
[26] Sanudo, op. cit., vol. iv, p. 70. Per lettera del 14 giugno 1501 dice che nel campo francese «era Zulian de’ Medici, e altri forausciti di Reame, e capelazi di Lombardia, e Bernardin de Corte, fu castellan di Milan, e Simon di Rigoni, che amazò il thesorier de Milan, et Demetrio, excelentissimo greco». A p. 136 ripete che coi francesi è anche «Domino Simon Rangon».
[27] Dal Prato, Storia di Milano in Archivio storico italiano, i, 3, 1843, p. 259.
[28] Op. cit., vol. iii, p. 25.
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