PORTALE ITALIANO DI DIVULGAZIONE DELLA VITA E LE OPERE DI LEONARDO DA VINCI
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Le origini del gioco degli scacchi
sono ancora incerte: giochi che potremmo definire precursori degli scacchi risalgono agli albori della civiltà. Per esempio una spedizione archeologica italiana ha trovato in Persia nel deserto di Shahr-i-So-khta pezzi e tavolieri per un gioco forse simile agli scacchi, che sono stati fatti risalire al 2300-2200 a.C.
Molte e diverse sono inoltre le leggende sorte attorno a questo bellissimo gioco e ciò rende ancora più difficile il tentativo di inquadrarne con precisione le origini da un punto di vista storico. Sicuramente il gioco ha origine orientale: è infatti ormai universalmente accettato che gli scacchi siano nati in India e all’inizio prevedessero quattro giocatori; in seguito con il passaggio alla Persia si trasformarono in gioco a due, assumendo una forma molto simile a quella che oggi noi conosciamo. Questo avveniva intorno al 650 d.C. all’epoca di Re Cosroe “dall’anima immortale”, che era riuscito a pacificare il suo regno e a portarvi benessere (il periodo di pace durò – incredibilmente per quei tempi e quelle terre – oltre un quarto di secolo).
E la leggenda più famosa attorno alla nascita degli scacchi è proprio riferita a Re Cosroe, che pur essendo ricchissimo e possedendo ogni cosa, non riusciva più a trovare interessi nelle sue giornate e si annoiava terribilmente. Un giorno allora promise di donare qualsiasi cosa a chi fosse riuscito ad escogitare un modo per rendere di nuovo piacevole la sua vita. Dopo qualche tempo, Sissa, il più giovane tra i saggi della sua corte, gli portò gli scacchi, un gioco che appassionò tanto il re che da quel momento passò tutto il suo tempo a giocarlo. Poi il Re, memore della sua promessa, chiese a Sissa quale ricompensa desiderasse, immaginando che avrebbe chiesto oro, gioielli e così via. Invece Sissa chiese tutto il grano che si sarebbe ottenuto ponendo un chicco sulla prima casella, due sulla seconda, quattro sulla terza, otto sulla quarta, e così via sempre raddoppiando, fino alla sessantaquattresima casella. A Re Cosroe la richiesta sembrò assai modesta e ordinò quindi al Gran Ciambellano che fosse dato a Sissa il grano richiesto. E rimase incredulo quando gli dissero che i granai del regno erano ormai vuoti e non si era ancora giunti neppure alla metà delle caselle della scacchiera!
Infatti il numero di chicchi di grano necessari per soddisfare la richiesta del saggio era enorme, 18446744073551615!, una quantità, cioè che si potrebbe ottenere solo coltivando più volte tutta la superficie della Terra!
Ma tralasciamo le leggende e vediamo di scoprire la realtà storica del gioco degli scacchi.
Per prima cosa dobbiamo dire che non è logico pensare che il gioco sia stato ideato all’improvviso e da una sola persona; è più probabile che sia nato dalla evoluzione di al-tri giochi più semplici, fino a concretizzarsi nella definitiva idea di una battaglia in miniatura, ispirandosi a quella che era la formazione dell’esercito indiano. Gli eserciti indiani anticamente prendevano quattro sezioni base: truppe veloci montate su elefanti, guerrieri a cavallo, salmerie su carri per il trasporto di armi, viveri, ecc., e infine la fanteria, ovvero i soldati a piedi; inoltre logicamente nella battaglia era presente il Re con i suoi generali.
Sulla base di questo schema dell’esercito indiano si sono poi configurati i pezzi per il gioco degli scacchi: ovviamente saranno ne-cessari vari decenni ed a volte secoli perché i pezzi del gioco assumessero la definitiva sistemazione attuale e perché venissero codificate le regole oggi universalmente accettate.
Possiamo comunque dire che i nomi dei pezzi non derivano né dall’indiano né dal persiano, ma dall’arabo - vedremo più avanti che furono gli Arabi a diffondere capillarmente il gioco.
Le truppe su elefante corrispondono agli Alfieri (per assonanza con il nome arabo dell’elefante, ovvero ‘al-fin’), quelle a cavallo ai Cavalli, quelle su carro (in arabo ‘ruck’) alle Torri (per assonanza con ‘rocca’, ‘rocco’), quelle a piedi ai Pedoni.
Quanto al Re rimase ovviamente tale, mentre quella che oggi è la Regina (o Donna) inizialmente non esisteva (impensabile per quelle popolazioni una figura femminile in un esercito) ed era invece il Generale. La trasformazione in Regina avverrà solamente dopo l’Anno Mille quando gli scacchi arrivarono in Europa.
Torniamo alla storia. Dall’India, tramite i consueti canali degli scambi e dei commerci, il gioco passò in Persia; qui, come abbiamo detto, da gioco a quattro si trasformò in gioco a due e venne chiamato il “Gioco del Re”: in Persia il Re era chiamato Shah e da questo nome si ebbero le varie dizioni, da ‘scacco’ e ‘scacchi’ in italiano, a ‘schach’ in tedesco, ‘chess’ in inglese, ‘echecs’ in francese, ecc. E poiché quando si vinceva, ovvero si uccideva il Re avversario, si diceva “Shah mat!” (ovvero il Re è morto) ecco lo “scacco matto!”.
Dalla Persia gli scacchi passarono poi agli arabi, conoscendo un periodo di grande splendore e diffusione.
Nonostante il favore incontrato presso tutta la popolazione, non si deve credere che il gioco degli scacchi avesse vita facile. Infatti poiché non vi erano regole ben precise, assai spesso per rendere più incerte le partite e soprattutto per evitare che durassero troppo a lungo, si ricorreva all’ausilio dei dadi, lanciando i quali veniva indicato il pezzo da muovere. Ma i dadi erano considerati gioco d’azzardo e quindi proibiti; perciò gli scacchi rischiarono ben presto di fare la medesima fine.
Così gli arabi abolirono definitivamente l’uso dei dadi nel gioco e ne esaltarono gli aspetti matematici, materia di cui erano grandi appassionati: per esempio toccare una sola volta tutte le caselle della scacchiera con il movimento ‘a salto’ del Cavallo.
Molto noto per i suoi studi matematici applicati agli scacchi, fu per esempio Al-Khuwarizmi, vissuto nel IX secolo d.C., e rimasto negli annali storici perché dal suo nome è derivato il termine “algoritmo”, mentre da una sua opera è derivato quello di “algebra”.
Gli arabi trovarono così negli scacchi un nuovo campo di studio e ben presto elaborarono le prime sistemazioni “teoriche” del gioco: e nell’892 apparve il primo trattato scacchistico di cui si è a conoscenza, opera di un medico arabo, Abul-Abbas di Bagdad.
Il fiorire della cultura araba facilitò la diffusione del gioco, che, in particolare grazie ai Crociati, alla fine del millennio giunse anche nel mondo occidentale. Gli scacchi si affermarono subito in tutto il continente europeo, Italia compresa, come è dimostrato dai vari e numerosi documenti giunti fino a noi e che risalgono proprio circa all’anno 1000.
Il “boom” del gioco in Europa trovò poi la sua definitiva consacrazione verso il 1050, quando il medico di corte di Alfonso VI di Castiglia lo incluse tra le discipline cavalleresche, considerandolo essenziale per la formazione culturale e morale.
Il Medioevo e l’ostilità della Chiesa
Una delle prime testimonianze sul gioco degli scacchi in Italia risale al 1061 ed è una lettera del monaco Pier Damiani, futuro cardinale di Ostia e futuro santo, ricordato anche da Dante nel ‘Paradiso’. Nell’ottobre di quell’anno Pier Damiani era a Firenze: si recò in chiesa per la messa celebrata dal vescovo e poiché questi tardava andò a cercarlo in sacrestia dove lo trovò intento a giocare a scacchi, del tutto dimentico dei suoi doveri.
Così Pier Damiani scrisse al papa, Alessandro II, una violenta lettera di accusa contro il vescovo e contro gli scacchi, chiedendo la condanna del gioco: il papa non poté fare altro che proibirlo ufficialmente. La condanna fu poi ribadita in due successivi Concili nei secoli seguenti, ma in realtà non ebbe particolari conseguenze, perché bene o male si continuò a giocare, specie tra i nobili. Infatti, se alcuni si adeguarono alle indicazioni della Chiesa (per esempio in Francia Luigi IX - futuro san Luigi - proibì il gioco nel 1254) molti altri furono di più ampie vedute e ne favorirono la diffusione.
Non va dimenticato, tra l’altro, che nonostante la condanna, ai primi del 1300 ebbe grande fortuna il trattatello di frate Jacopo da Cessole, morto verso il 1325. In questo libretto, chiamato “De ludo”, il frate prendeva spunto proprio dagli scacchi per insegnare massime ed ammaestramenti morali. Ma non mancava anche una parte tecnica, con le regole del movimento dei pezzi di allora, spesso assai diverse da quelle in uso al giorno d’oggi. Il trattato di fra Jacopo ebbe una grande diffusione nel Medioevo ed è una delle maggiori testimonianze dell’epoca giunte fino a noi.
E che gli scacchi nonostante la condanna della Chiesa fossero diffusi tra tutti i ceti sociali lo dimostra un ‘bruciamento di vanità” del Savonarola nel Quattrocento in cui le cronache ricordano che furono bruciati “oltre duomila scacchieri” (!).
Bisognerà comunque attendere fino al Cinquecento perché la condanna della Chiesa venga revocata. Molto del merito fu di papa Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, che era un grande appassionato del gioco. In seguito a dichiarare definitivamente leciti gli scacchi furono prima Santa Teresa d’Avila e poi San Francesco di Sales e a quel punto la condanna fu in pratica dimenticata.
Lo sviluppo degli scacchi nel Rinascimento
Per Rinascimento si intende come è noto il periodo che va dall’inizio del XIV secolo alla fine del XVI. Rappresenta soprattutto un vasto movimento di pensiero che coinvolge tutta l’Europa, valorizzando la forza intellettiva dello spirito umano.
Gli scacchi, sintesi di intelligenza, astrazione e creatività, trovarono in questo contesto il loro periodo aureo e si può dire che non vi fosse signore che non avesse tra i protetti della propria corte qualche giocatore di scacchi.
Celebre per esempio la corte di Isabella d’Este duchessa di Mantova, che per migliorarsi nel gioco ospitava Maestri dalla Spagna e che all’inizio del Cinquecento per un paio di anni ebbe a corte anche Leonardo da Vinci e fra’ Luca Pacioli (noto in particolare ai ragionieri per la codifica della ‘partita doppia’) autore del “De ludo scachorum”, raccolta di 114 schemi di gioco descritti con un’accurata raffigurazione, finemente realizzata con pochi tratti in punta di pennello, di pezzi reali.
E oggi è praticamente certo che l’ideatore di queste figure sia stato proprio Leonardo Da Vinci, al quale inoltre sembra sia possibile attribuire l’ideazione di una delle mosse ‘particolari’ del gioco, ovvero l’arrocco.
Nel Rinascimento nacquero i primi giocatori professionisti, la partita viva ebbe il periodo di massimo sviluppo, le regole del gioco subirono le prime modifiche che portarono a quella che è praticamente la regolamentazione attuale.
Torniamo a Leonardo. Se non imparò a giocare da ragazzino o alla corte del Magnifico, di certo al più tardi imparò quando nel 1482 si presentò a Ludovico il Moro e rimase alla sua corte a Milano.
Che il gioco degli scacchi fosse molto diffuso specie tra i nobili, il clero ed i ceti più ricchi è storicamente documentato; una delle ragioni principali era che gli scacchi permettevano di passare il tempo (oggi diremmo ‘il tempo libero’) anche perché va ricordato che all’epoca non c’era la radio, non c’era la televisione (e non c’era neppure il campionato di calcio…). Un’altra ragione era che la partita a scacchi permetteva a uomini e donne di stare insieme senza creare ‘pettegolezzi’ ed era quindi una buona occasione di corteggiamento: e questo accadeva anche alla corte dei Visconti e degli Sforza, dove gli scacchi erano molto diffusi e giocati dallo stesso Ludovico il Moro.
Da documenti conservati nell’Archivio Storico Lombardo si sa infatti che nel 1472 Ludovico, allora ventenne, perse ben 30 ducati con Galeazzo Maria Sforza; questi successivamente, nel 1475, trovò un ben più ostico avversario nel conte Galeotto Belgioioso, tanto che seccato per le continue sconfitte decise di allontanarlo da Milano. In una lettera (10 settembre 1475, pure conservata nell’Archivio Storico Lombardo) Galeazzo Maria scrive da Villanova al visconte Ascanio Maria Sforza: “El conte Galeoto a Belzoioso ne ha richiesto licenza de venire a casa et non sapemo pensare la ragione se non è perché el voglia portare ad casa li dinari chel ha vinto ad zocare a scachi …. Et guardatevi bene dal zocare a scachi con lui perché è fatto così bon magistro che vincerà ad ogni partito”.
E ancora c’è un altro scritto di Galeazzo del novembre 1475: una missiva ad un artigiano con cui ordina una nuova scacchiera avvertendo che la voleva “intarsiata e non dipinta” perché la pittura se ne andava troppo presto.
Possiamo dire pertanto che se Leonardo ancora non sapeva giocare a scacchi sicuramente imparò a Milano; del resto, come ha scritto Marco Malvaldi nel suo libro ‘La misura dell’uomo’ (Giunti Editore) “Leonardo non smette mai di imparare, non c’è un momento della sua vita in cui si accontenta di quello che sa.”
E a proposito del suo soggiorno milanese, in un documento di fine XV secolo si legge che “Leonardo giocò a scacchi con l’Ambasciatore francese adottando una nuova tattica, il sacrificio del Pedone d’Alfiere di Donna” (dopo aver iniziato la partita con la spinta di due passi del Pedone di fronte alla Donna): in pratica un esempio, forse il primo, della apertura che sarà poi conosciuta come “Gambetto di Donna (accettato)”; purtroppo non ci sono altri dettagli, né sul nome dell’Ambasciatore né su quando venne giocata la partita.
Leonardo, come si sa, era anche un innovatore e possiamo pensare che il gioco come veniva praticato all’epoca gli sia apparso lento o forse aveva già avuto sentore delle innovazioni nel movimento soprattutto della Regina e dell’Alfiere che sarebbero state adottate definitivamente da lì a pochi anni.
Così possiamo ritenere che abbia pensato a sua volta ad una modifica migliorativa ed abbia ‘ideato’ il movimento dell’arrocco (che allora non si chiamava ancora così).
Lo possiamo dedurre dal fatto che nei Fogli di Windsor datati tra il 1484 e il 1487 c’è il disegno di un suo “rebus” scacchistico (foglio 12692r). E come scrive ancora Malvaldi “Il disegno per Leonardo è pura espressione intellettuale, una astrazione in grado di rappresentare una teoria. /…/ i suoi disegni servono a far vedere come le cose funzionano, non che aspetto abbiano.”
La soluzione del “rebus” scacchistico di Leonardo è “io arroccherò”, con l’idea di effettuare il particolare movimento di Re e Torre in una mossa sola e non in due come avveniva all’epoca, quando per togliere il Re dal centro della scacchiera e portare in gioco la Torre c’era la possibilità di una combinazione di due mosse successive, come riportato dallo spagnolo Lucena nel suo testo del 1496 o 1497: prima si muoveva la Torre, poi alla mossa immediatamente seguente il Re aveva la facoltà di scavalcarla muovendo di due caselle. Ma si trattava di due mosse e non di una sola come avviene oggi con quello che possiamo definire l’arrocco ‘moderno’.
Probabilmente l’idea di Leonardo anticipava troppo i tempi e non trovò riscontro alla corte milanese, abituata al gioco classico dell’epoca.
Ma sicuramente le cose cambiarono quando, dopo la fuga da Milano, Leonardo si rifugiò insieme a fra’ Luca Pacioli presso la corte di Isabella d’Este a Mantova.
Pacioli, noto matematico, era giunto alla corte del Moro da non molto tempo e aveva subito legato con Leonardo; Pacioli era anche uno scacchista e aveva raccolto molti ‘partiti’, come si chiamavano allora: oggi li definiremmo problemi, finali, combinazioni di centro partita. Forse non aveva in mente di farne un libro, ma presto cambierà idea e in altri suoi testi accennerà alla realizzazione del volumetto scacchistico.
Leonardo e Pacioli soggiornarono presso la corte di Isabella d’Este tra il 1499 e il 1503.
La corte di Isabella era all’epoca il fulcro europeo degli scacchi. Isabella era grande appassionata: accoglieva e ospitava i giocatori, faceva venire i migliori “professionisti” dalla Spagna per giocarci e prendere lezioni e si faceva intagliare i pezzi dai Maestri Campionesi (a volte “tirando sul prezzo”, come mostrano alcune lettere pervenuteci). Tutto questo è storicamente documentato.
Qui Leonardo trovò una “atmosfera scacchistica” molto intensa e ricca.
Luca Pacioli, quando arrivarono, aveva con sé la sua raccolta di ‘partiti’ che presto si trasformò nel celeberrimo De Ludo Scachorum, realizzato con il preciso scopo di farne omaggio a Isabella.
Alla realizzazione del libro contribuì sicuramente, come sarà poi dimostrato, anche Leonardo.
Del libro però presto non ci fu più traccia e si pensò fosse andato perduto, fino a che, come noto, è stato casualmente ritrovato pochi giorni prima del Natale del 2006 presso la Biblioteca della Fondazione Palazzo Coronini Cronberg di Gorizia. Praticamente quasi mezzo millennio dopo che era stato realizzato!
Le analisi sul manoscritto hanno dimostrato che vi mise mano anche Leonardo, il quale non solo realizzò molti dei “diagrammi” con le varie posizioni (lo si evince dal fatto che sono disegnati con la mano sinistra e che riportano le classiche ‘crocette’ di Leonardo) ma disegnò anche dei pezzi di nuova concezione, molto più leggeri e artistici di quelli allora in voga.
Pezzi proporzionati in base al rapporto aureo; essi si rifanno, per il Pedone, a forme note, per la Regina ad una forma precisa già utilizzata da Leonardo, nel disegno di una fonte (in studi e disegni di fontane, Codice Atlantico, foll. 293r-b e 212r-a. E c. 1497-1500, Ms. I di Madrid), per le figure di Alfiere, Cavallo, Torre e Re, e per la loro complessiva raffinata snellezza, ai decori della Domus Aurea, Candelabra e Grottesche, scoperte sul finire del 1400 e note al Maestro.
Le figure del Manoscritto, infine, introducono per la realizzazione di tutti i pezzi del gioco l’uso esclusivo del tornio, cosa mai fatta né prima né dopo.
Ancora una volta Leonardo anticipò (troppo) i tempi …
Per quanto riguarda l’aspetto del gioco ‘vivo’, dobbiamo tornare al rebus nei Fogli di Windsor. Dato che all’epoca si puntava a velocizzare il gioco (Donna e Alfiere estesero infatti il proprio movimento proprio in quegli anni) e dato che, come abbiamo detto, fino a quel momento quello che oggi chiamiamo arrocco veniva effettuato con due mosse consecutive successive, si può pensare che Leonardo abbia proposto l’innovazione, ovvero la nuova mossa, definita arrocco, effettuata in un colpo solo e si può ritenere che l’idea piacque, sia perché rispondeva allo scopo di velocizzare il gioco, sia soprattutto perché costituiva una specie di ‘antidoto’ al nuovo potere assunto dalla Donna o, per adeguarci all’epoca, dalla Regina.
Ovvio che una volta accettata l’idea presso la corte di Isabella, poi la diffusione dell’arrocco (in una mossa) in tutta Europa, da parte dei “professionisti” che la frequentavano, avvenne di conseguenza.
fonte: Franco Rocco
Il contesto lombardo e milanese nel Quattrocento vede la presenza di giocatori di scacchi unita ad una forte passione che gli Sforza hanno ereditato dai Visconti. Tanto che si può parlare di una vera e propria scuola lombarda. Questa passione coinvolgeva direttamente anche il suo committente Ludovico il Moro.
Questo è il contesto nel quale di muove la brillante mente di Leonardo da Vinci. Arrivato a Milano e sapeva già giocare a scacchi ma senza dubbio apprese nuove pratiche alla corte degli Sforza. Nei Fogli di Windsor (ad esempio il nr. 12692r) datati tra il 1484 e il 1487 è presente proprio un rebus con una innegabile immagine della torre e la cui soluzione è “io arroccherò”. E ancora la mossa dell’arrocco ad un solo movimento non era stata inventata.
L’arrocco è una mossa che coinvolge il re e una delle due torri. È l’unica mossa che permette di muovere due pezzi contemporaneamente nonché l’unica in cui il re si muove di due caselle. Leonardo l’aveva già “inventato” prima del Cinquecento quando si usava farla ancora con due. Questa mossa viene fatta nell’apertura e serve spostare il re in una posizione più sicura e allo stesso tempo si porta una torre in una posizione più attiva d’attacco.
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