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LEONARDO DA VINCI E LA LOCANDA LE TRE RANE

1478, estate - locanda Le Tre Rane

In questo periodo Leonardo è ancora a bottega, che deciderà di lasciare molto probabilmente alla fine dell'anno; in bottega continua il suo lavoro di pittura ma si applica anche studiando le fusioni dei metalli. Lavorare in bottega dal verrocchio, a  uell'epoca una delle più importanti botteghe di arti e mestieri. Per lavorare dal Verrocchio  infatti, occorreva una grande versatilità; non solo pittura, ma anche scultura, lavorazioni su legno, fusioni di bronzo, ceramica e ferro e questo, Leonardo, lo stava apprendendo giorno dopo giorno

 

in seguito a una lite fra bande fiorentine rivali, la famosa Taverna delle Tre Lumache prende fuoco. Leonardo abbandona nuovamente le sue pitture per avviare, assieme al suo amico Botticelli,  una locanda improvvisata, riciclando per lo più vecchi scenari dello studio del Verrocchio, chiamata Le Tre Rane di Sandro e Leonardo. Leonardo dipinge una delle insegne appese fuori ai lati della locanda, Botticelli l'altra. Il locale non ottiene successo,  gli scenari di Verrocchio vengono smontati dalle impalcature e riportati di nascosto nello studio del maestro. Nessuna taverna lo assume come cuoco né gli offre un lavoro qualsiasi nelle cucine, a causa degli effetti nefasti che le sue eccentriche ricette sembrano avere su ogni tipo di clientela. È chiaro che per il momento non ha affatto voglia di  continuare le commissioni di tipo pittorico, preferisce andarsene  in giro per Firenze, scarabocchiando, suonando il liuto e inventando nuovi nodi.

 

Artisti allo sbaraglio
Alla Taverna delle Tre Rane la clientela poteva scegliere da curiosi menu proposti dai due artisti, ognuno a suo modo: i più letterati dovevano decifrare le pietanze scritte dal mancino Leonardo, quindi da destra a sinistra; i più sempliciotti dovevano indicarle usando le immagini disegnate dal Botticelli (una copia è conservata all’università di Glasgow). Qui si serviva vino delle colline attorno a Firenze, e l’elenco delle portate andava dalla ribollita all’arista, dal baccalà al capretto bollito, ai carciofi, dal rognone di agnello alla specialità della casa, le ranocchie fritte. La maniacale attenzione per la presentazione del cibo di Leonardo si fa sentire ancora: le porzioni dei piatti sono sempre piccole, quasi una nouvelle cuisine d’avanguardia, decisamente troppo avanti per i tempi.

Purtroppo l’osteria delle Tre Rane non ebbe fortuna: i clienti non amavano la lunga teoria di porzioni lilliput, preferendo pochi piatti in quantità sostanziose.
 

Dagli scritti di Leonardo sono state recuperate diverse ricette: prima tra tutte la sua acquarosa, bevanda a base di estratto di acquarosa, zucchero, limone e poco alcool, da servirsi fresca. Ci sono anche idee di antipasti veloci e minimi come cipolla lessa adagiata su di una fettina di formaggio di bufala e con in cima un’oliva nera a spicchi; una susina su una fettina di carne cruda, con boccioli di melo oppure tre fettine di carota cruda ognuna scolpita a forma di cavalluccio marino, con sopra un cappero e una goccia di pasta d’acciughe.  Malgrado l’inventiva di Sandro e Leonardo, la clientela dimostrò di non apprezzare la lunga teoria di porzioni modello Lilliput, così l’osteria non ebbe lunga vita e scomparve senza lasciare traccia, al punto che alcuni dubitano che sia mai esistita. In una lettera autografa a Lorenzo il Magnifico nel presentare le sue tendenze scrive “eccello nel formulare indovinelli e nell’inventare nodi. e faccio delle torte che non hanno uguali”.

Purtroppo l’osteria delle Tre Rane non ebbe fortuna: i clienti non amavano la lunga teoria di porzioni lilliput, preferendo pochi piatti in quantità sostanziose.


“Alle ricette di pietanze pesantissime amate da Ludovico che Leonardo definisce “quell’orrendo intruglio di carne e ossa” si alternano quelle dei “miei piatti semplici”, che Leonardo avrebbe “preparato se il mio Sire Ludovico non li avesse rifiutati con tutta la loro delicatezza e purezza” e quelle di piatti insoliti come le “pastiglie di mucca”, il ghiro farcito e la spalla di serpente. In un’occasione di un pranzo, per una festa molto importante, Leonardo seguendo la sua linea, ormai acquisita, di “nouvelle cuisine” pensando di fare cosa molto gradita allo Sforza presentò a lui un menù, per l’epoca, assolutamente rivoluzionario, eccolo: Un involtino d’acciuga sopra una rondella di rapa scolpita a forma di rana; una carota intagliata artisticamente; un cuore di carciofo; due mezzi cetrioli su di una foglia di lattuga; un petto d’uccello; un uovo di pavoncella; un testicolo di pecora con panna; una zampa di rana su foglia di tarassaco;

uno stinco di pecora con l’osso. Una lista di cibi che il Moro rifiutò in toto aggiungendo che nessuno dei suoi ospiti avrebbe fatto anche centinaia di chilometri per morir di fame! Al che Leonardo (lo possiamo immaginare piuttosto avvilito, un po’ contrariato e sicuramente controvoglia) dovette mettere all’opera, per quella festa di quella ricca corte, le varie decine di cuochi ed aiuti vari di cui disponeva per questo popò di menù:

 

600 salcicce di cervello di maiale provenienti da Bologna;

300 zamponi che venivano da Modena;

1.200 tortini di Ferrara; 200 fra vitelli, polli ed anatre;

2.000 ostriche di Venezia;

pasta che arrivava da Genova;

storione con le proprie uova (il caviale);

tartufi bianchi e neri;

purè di rape

marzapane da Siena.

 

L’unica cosa di suo che, in quella occasione, fu autorizzato a far portare in tavola furono delle splendide sculture di bellissime cattedrali fatte di marzapane e gelatina.

 

Alla corte del Moro Leonardo era ritenutissimo ( come ovunque andasse) e come tale oggetto anche di notevoli doni da parte dello Sforza stesso, fra cui uno in particolare che il sommo Maestro gradì moltissimo.

Nello specifico si trattò di una vigna che Leonardo, ben memore della sua infanzia vissuta fra i filari e gli olivi di proprietà della sua famiglia,curava direttamente in prima persona. Una vigna i cui vitigni sono stati ritrovati con certezza (ovviamente a Milano) nel parco della splendida Casa degli Atellani ( la quale è a “due passi” da Santa Maria delle Grazie e quindi dell’Ultima Cena – ndr), Casa che risale proprio al XV° secolo. Leonardo anticipò di cinquecento anni le tecniche migliori per la vinificazione studiandone, da par suo, tutti i vari passaggi al fine di arrivare ad avere un ottimo prodotto.

 

Così il Genio definiva la cosa: “Il vino, il divino licore dell’uva”. Oppure un “vino excellente, che innalza lo spirito dell’uomo al celabro” ma aggiungeva anche (attento e geniale in tutto qual’era): “Il vin sia temperato, poco e spesso, no fuor di pasto, né a stomaco vuoto”.

 

Non è quindi casuale che Leonardo mentre era al “servizio” dei Borgia fra i suoi schizzi e disegni mise anche quello di una barrique la prima in assoluto ad essere pensata ai fini di migliorare la qualità del vino affinandolo dentro di essa. Tornando all’Uomo ed alla sua passione per la gastronomia va ricordato che durante le sue varie peregrinazioni Leonardo portava sempre con se una cassetta di colore scuro dal contenuto misterioso in quanto non lo mostrava mai nessuno, questo fino a quando, ospite stimatissimo e graditissimo del re di Francia Francesco I, con il quale fra l’altro condivideva pure le varie passioni enogastronomiche (ed insieme a cui spesso curava, finché la salute glielo permise, l’orto castellano) si avviò verso la sua finis vitae e dietro richiesta del suo amico sovrano aprì la “famigerata” cassetta (mai mostrata all’interno a niuno) la quale conteneva un prototipo di una macchina per fare gli spaghetti! E che il Genio dei Geni coltivasse una vera e propria passione per quella che ora chiameremmo enogastronomia è dimostrato pure dal fatto che (semmai ce ne fosse stato bisogno) nel suo testamento lasciò una parte dei suoi averi (e neppure la più trascurabile) a Battista de Villanis il suo “storico” cuoco.

 

fonte: Arnaldo Gioacchini


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