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LEONARDO DA VINCI E L'ASTRONOMIA

Leonardo da Vinci con le sue intuizioni e visioni non convenzionali, offrì un apporto fondamentale all’impostazione scientifica moderna.

 

E' noto che nei suoi scritti vi erano progetti, esemplificazioni e contenuti del tutto facilmente interpretabili anche dagli scienziati dell'epoca, quuesto a dimostrazione che il suo modello espositivo scritto e ,molto probabilmente, quello verbale, erano all'altezza di poter essere capiti e analizzati dagli allora esperti della materia. Negli scritti di Leonardo si trova testimonianza della sua capacità di saper spiegare ed esprimere concetti di grande complessità in maniera chiara e molto semplice.

 

Leonardo da Vinci si interessò anche all'astronomia durante la sua vita e fece numerosi schizzi e appunti relativi a questo campo. Il suo approccio alla scienza era basato sull'osservazione diretta e sull'esperienza, caratterizzati dal suo stile unico di combinare arte e scienza.

Alcuni aspetti dell'astronomia che interessarono Leonardo includono:

 

Studio della Luna e delle stelle

Leonardo osservò e studiò la Luna, realizzando schizzi dettagliati della sua superficie e delle fasi lunari. Esplorò anche le stelle, cercando di comprendere la loro natura e disposizione.

 

Luce e ombra nella Terra e nella Luna

Leonardo si interessò alla luce e all'ombra e alle loro interazioni sulla Terra e sulla Luna. Realizzò studi sulla riflessione della luce sulla superficie della Luna e sulla formazione di ombre.

 

Comete

Fece osservazioni sulle comete e realizzò schizzi delle loro code. L'approccio di Leonardo era basato sull'osservazione diretta e sulla registrazione dettagliata delle caratteristiche astronomiche.

Astrolabio e strumenti astronomici: Leonardo studiò e disegnò strumenti astronomici come l'astrolabio, un dispositivo utilizzato per misurare l'altezza delle stelle e dei pianeti sopra l'orizzonte.

Va notato che, mentre Leonardo era un osservatore e un appassionato di astronomia, molte delle sue idee astronomiche non erano sempre in linea con la conoscenza scientifica del suo tempo, e molte delle sue osservazioni non furono pubblicate o condivise in modo sistematico durante la sua vita. Tuttavia, il suo approccio innovativo e la sua curiosità scientifica hanno reso il suo lavoro un'importante testimonianza del modo in cui un artista del Rinascimento esplorava il mondo naturale.

 

Gli scritti di Leonardo riguardanti l’astronomia rivestono un profondo significato culturale perché si innestano a pieno titolo nella scienza e nella filosofia rinascimentale.
Al Sole dedica un ampio studio, certamente attratto sia dalle implicazioni cosmologiche concernenti il suo moto apparente sia dalla misteriosa origine del suo calore.
In primo luogo, Leonardo pensa che il Sole sia sicuramente molto più grande della Terra e giunge a questa conclusione dopo che, sulla parete di in una camera oscura, aveva proiettato il suo luminosissimo disco. Nel manoscritto A, foglio 20v, riporta le seguenti istruzioni per eseguire le misure (precedute dall’intestazione: “Modo di sapere quanto è grande il Sole” si veda la figura qui sotto): “fa che ab sia braccia 100, e fa il buso, donde passano i razi solari, sia 1/16 di braccia e nota quanto il razo è cresciuto nella percussione”.

 

Una delle sue avvincenti teorie fu quella della centralità del sole.

Teorizzò la centralità del Sole, che fu dibattuta aspramente prima che importanti scenziati ne dimostrassero la fondatezza secoli dopo, e si pose quesiti sul suo calore, sullo scintillio delle stelle, sulla Terra, sulla Luna.

 

Secondo Leonardo i pianeti oscillanti erano paragonabili a magneti, quin di calamite, che sviluppavano attrazione tra loro . Questo concetto, apparentemente folle e difficilmente dimostrabile allora, fu ripreso dallo stesso Keplero e più tardi da Newton che diedero alle definizioni di Leonardo una definizione scientifica: gravitazione universale. 

 

Sull’argomento forza di gravità, Leonardo riuscì a rendere un’immagine di rara suggestione, che usò per spiegare l’impossibilità del moto perpetuo, immaginando di fare un buco che attraversava la Terra da parte a parte passando per il centro, come scrive lui stesso in modo estremamente chiaro: 

 

«nessuna cosa insensibile si moverà per sé, onde, movendosi, fia mossa da disequale peso; 

e cessato il desiderio del primo motore, subito cesserà il secondo».

 

L’ipotesi di Leonardo ci dice che se gettassimo un sasso nel buco da lui teorizzato, esso supererebbe il centro della Terra, proseguendo il suo cammino fino a raggiungere la parte opposta alla nostra. Poi tornerebbe indietro e, dopo essere passato nuovamente per il centro della Terra, uscirebbe dal buco dove noi lo abbiamo lanciato. 

 

Questo moto pendolare continuerebbe per molto tempo riducendo gradatamente la sua estensione, fino a quando il sasso si ferma al centro della Terra. 

L’ipotetico esperimento, quindi, confermerebbe l’idea dell’impossibilità del moto perpetuo teorizzata da Leonardo, ma non tiene conto del motivo del rallentamento del moto del sasso, ossia la resistenza aerodinamica generata dall’aria.

 

Infatti, sappiamo che, semplificando al massimo, se lo spazio nel quale viaggia il sasso fosse completamente vuoto, ossia in assenza di aria, mancherebbe quella forza che resiste al moto del sasso e avremmo un teorico modello di moto perpetuo, cioè proprio l’opzione che Leonardo intendeva negare.

Sono notevoli anche i suoi metodi di osservazione diretta dell’astro: “Il modo di vedere il Sole eclissato sanza passione dell’occhio” si può fare guardando attraverso un foglio di carta spessa forata con un ago, “tolli una charta, e falle busi chon [una] agucchia, e per essi busi riguarda il Sole” (Codice Trivulziano, foglio 6v).


Affascinato dal problema del calore solare, Leonardo formula le seguenti considerazioni: il Sole ci riscalda pur non essendo del colore del fuoco, bensì tanto più bianco e “chiaro”. 

 

Osserva poi che durante la fusione del bronzo, quando il metallo raggiunge la massima temperatura, esso appare più simile al colore del Sole e quando invece comincia a raffreddarsi assume il colore del fuoco. Leonardo intuisce lucidamente che la luce è tanto più bianca quanto è più caldo il corpo che la emette, anticipando così gli studi (successivi di diversi secoli) che porteranno alla formulazione delle leggi che regolano l’emissione dell’energia raggiante nel “corpo nero”.


Con queste premesse è facile comprendere perché nelle pagine dei Codici emerge con insistenza la “lauda al Sole” (“il moto delli elementi nasce dal Sole; il lume e il caldo dell’universo è generato dal Sole; […] i pianeti pure hanno lume dal Sole”) e la centralità cosmologica dell’astro del giorno, in modo del tutto analogo alle concezioni neoplatoniche propugnate dalla filosofia neo-pagana del suo contemporaneo Marsilio Ficino (1433-1499), autore del fondamentale trattato De Sole.


Non fa eccezione neppure il Libro di pittura (ca. 1500-1505), nel quale Leonardo inneggia al Sole, “luce di tutto il mondo”, lo stesso Sole che “à corpo, figura, moto splendore, calore e virtù generativa, le quali cose parte tutte da se, sanza sua diminuzione” (Codice Atlantico, foglio 270v b).


Ma è nel manoscritto W.L. (foglio 132r) che si legge la famosa frase, che rompe drasticamente con la tradizione tolemaica: “El sol no si move”, facendo pensare che, alcuni decenni prima del De Revolutionibus di Copernico, egli abbia elaborato una primitiva idea eliocentrica che si discosta alquanto dalle sue prime riflessioni, risalenti al periodo 1482-1500, contenute nei Codici Atlantico, Arundel, Leicester ed F, che apparivano ancora di chiarissima matrice aristotelico-tolemaica (Codice Atlantico, f. 30v: “il Sole che scalda tanto mondo quant’è vede, e che in 24 ore fa si gran corso”).
La sua felice intuizione, che rinnega la centralità della Terra, è rafforzata dal seguente brano: “Come la Terra non è nel mezzo del cerchio del Sole, né nel mezzo del mondo, ma è ben nel mezzo de’ suoi elementi, compagni e uniti con lei, e chi stesse nella Luna, quand’ella insieme col Sole è sotto a noi, questa nostra Terra coll’elemento dell’acqua parrebbe e farebbe ofizio tal qual fa la Luna a noi” (Codice F, foglio 41v). 

Nell’ambito delle sue ricerche astronomiche anche la Luna occupa un posto rilevante, tanto da fargli vagheggiare un grande trattato sul nostro satellite. La lettura delle note sulla Luna (Manoscritto Br. M. , f. 94r) evidenzia la modernità del approccio multidisciplinare: “Volendo io trattare della essenza della Luna è necessario in prima…” spiegare la teoria degli specchi piani e gli effetti della riflessione della luce, senza la quale rimarrebbero avvolti nel mistero i fenomeni lunari, come, ad esempio, la luce cinerea.


Il trattato lunare è, all’apparenza, uno dei soliti grandiosi, ma inconcludenti, progetti di Leonardo: questa volta però sostenuto da elementi di teoria ottica di indubbio interesse.


Infatti, in un’altra parte del stesso manoscritto (Manoscritto Br. M., f. 28r) Leonardo si interroga: “o la Luna à lume da se, o no: s’ell’à lume da se, perché non risplende sanza l’aiuto del Sole? E s’ella non à lume da se, necessità la fa specchio sperico [sferico]”.

 

Poi combatte le opinioni dei seguaci del filosofo greco Posidonio, secondo i quali essa risplende di luce propria: “la Luna non è luminosa per se, ma bene è atta a ricevere la natura della luce a similitudine dello specchio e dell’acqua, o altro corpo lucido” (manoscritto A., f. 64r). Ora, non avendo lume proprio, riceve da altri la luce (cioè dal Sole, Codice Leicester, f. 30r).


Ne consegue che anche la luce cinerea è dovuta ad un fenomeno di riflessione multipla della luce solare la quale, dopo aver colpito il nostro pianeta, in piccola parte raggiunge la Luna e da questa viene a sua volta riflessa (Codice Leicester, f. 2r).
In altri passi del Codice Atlantico (f. 83r) Leonardo discute la diversa natura dei raggi solari da quelli lunari ma, allo stesso tempo, ritiene che se questi ultimi fossero raccolti da uno specchio concavo, brucerebbero esattamente come quelli solari: “se il razzo refresso [raggio riflesso] dal simulacro del Sole ne l’acqua è raccolto collo specchio concavo, esso, poi che sia refresso da tale specchio, brucerà; il simile farà quel del plenilunio”. L’idea di Leonardo di rilevare il “calore” lunare non cadde nel vuoto. Un secolo dopo, Santoro Santorio (1561-1636) focalizzò con uno specchio sferico la luce lunare su di un termometro galileiano e, nel 1685, lo stesso feceGeminiano Montanari (1633-1687) che usò uno specchio ustorio e un termometro di “moto assai delicato”.


Le esperienze di Santorio e di Montanari, che si muovevano nella scia di Leonardo, erano sì importanti, ma i dispositivi che essi realizzarono erano troppo primitivi per misurare una grandezza così piccola. Il primo ad aver successo fu il fisico Macedonio Melloni che nel 1846 utilizzò un sensibile termomoltiplicatore di sua invenzione.


Per Leonardo la Luna è una massa solida, opaca e “greve” che, circondata dai suoi elementi (aria, acqua e fuoco), si sostiene nello spazio per le stesse ragioni per le quali vi si mantiene la Terra. Essa è a tutti gli effetti una piccola Terra (come scrive nel Manoscritto F., f. 64v) con un brevissimo ciclo stagionale: “ale: “à ogni mese un verno e una state, e à maggiori freddi e maggiori caldi, e suoi equinozi son più freddi de’ nostri” (Codice Atlantico, f. 303v b).


Un aspetto della Luna che stimola la sua curiosità è la natura delle macchie scure (quelli che per noi oggi sono i “mari” e gli “oceani”). In diversi Codici non accetta l’opinione di coloro che credono che tali macchie siano dovute a vapori che si innalzano dalla superficie lunare, perché, semplicemente, esse dovrebbero continuamente mutare d’aspetto e posizione (Manoscritto F., f. 84r). In un’altra annotazione, però, si smentisce e sembra disposto ad ammettere che la diversità degli aspetti delle macchie possa anche dipendere dai corpi nuvolosi che si elevano dal mare: “se terrai osservate le particelle delle macchie della Luna, tu troverai in quelle spesse volte gran varietà, e di questo ho fatto prova io medesimo disegnandole” (Manoscritto Br. M., f.19r).


Leonardo pensa che sulla Luna vi sia acqua e che i suoi mari siano agitati da onde e che: “è necessario ch’l corpo della Luna abbia terra, acqua e foco” (Codice Atlantico, f. 112v a). La Luna non è quindi una sfera tersa e ben pulita, bensì scabra e aspra e le disuguaglianze della sua superficie sono prodotte dall’incresparsi ed agitarsi delle onde dei mari che, almeno in parte, la ricoprono.
Uno dei suoi disegni lunari, contenuto nel Codice Atlantico (f. 674v), è stato datato da G. Reaves (della University of Southern California) tramite l’effetto della librazione sulle macchie lunari (la librazione è quella lieve oscillazione apparente della Luna attorno al proprio asse).
Nel disegno, Reaves riscontrò che la posizione dei mari suggeriva una librazione in latitudine di 7° e di -2° in longitudine. Per trovare la data corrispondente a questi due valori fu necessario calcolare la librazione lunare tra il 1507 e il 1515. La conclusione dell’analisi di Reaves indica che esso fu eseguito tra il 14 novembre e il 12 dicembre 1513.

 

Per Leonardo il diametro della Terra è di 7000 miglia: “considerando la grossezza di 7000 miglia che à essa terra…” (Codice Leicester, f. 35v).
Il problema è capire a quanti chilometri corrispondono le 7000 miglia del Codice. E’ possibile che il miglio da lui utilizzato sia quello milanese oppure quello fiorentino: nella prima ipotesi, il miglio è 1784,800 metri, nella seconda 1653,600. Pertanto, il diametro della Terra sarà, rispettivamente, 12 490 Km oppure 11 580 Km (ricordiamo che il diametro esatto, all’equatore, è 12 756 Km).
E’ probabile che Leonardo accettasse con piena consapevolezza il moto di rotazione della Terra. Il seguente passo ne costituisce un indizio: “li giorni non cominciano in un medesimo tempo in tutto l’universo, conciò sia che quando nel nostro emisperio è mezzogiorno, nell’opposito emisperio è mezzanotte” (Codice Leicester, f. 6v).
Una delle più importanti applicazioni della geometria alla fisica contenute nel Codice G (foglio 55r), riguarda la dimostrazione della caduta di un grave verso il centro della Terra che ricorda in modo impressionante un’analoga dimostrazione di Newton di ben 170 anni dopo.
Il ragionamento di Leonardo si basa sulla realtà fisica della rotazione terrestre: “Il mobile disciendente dalla suprema parte della spera del fuoco farà moto recto insino alla Terra ancora che li elementi fussino in continuo moto circonvolubile intorno al centro del mondo. […] Se’l mobile disciende dalla suprema all’infima parte delli elementi […] in 24 ore, il moto suo fia composto di diretto e di curvo. […] E di qui nascie che il sasso gittato dalla torre non percote nel lato d’essa torre prima che in terra”.
Tradotto in un linguaggio più accessibile, per Leonardo un grave in caduta libera da grande altezza descrive una curva ad elica (che inizia nel punto di caduta), risultante dal moto rettilineo (dovuto alla gravità) e del “circonvolubile” (cioè dalla rotazione della Terra con i propri elementi), moto che continua fino al centro del globo.

 

I manoscritti di Leonardo sono ricchi di riferimenti a problemi di ottica e di teoria della visione. Il motivo principale di questo suo spiccato interesse, che ritroviamo negli straordinari studi sull’anatomia e la fisiologia dell’occhio, deriva principalmente dalle sue ricerche sulla prospettiva e la pittura e solo marginalmente ha coinvolto altre discipline quali l’astronomia.
L’ottica ai tempi di Leonardo era un tortuoso groviglio di misteri che venivano spiegati con teorie assolutamente improbabili e contraddittorie. Fin dall’antichità era noto che la conoscenza del mondo esterno avveniva attraverso gli organi di senso, i quali comunicano con il cervello, sede della psiche, per mezzo di un complesso sistema di terminazioni nervose. L’odorato, il tatto e l’udito erano spiegati con meccanismi abbastanza plausibili, rimaneva però il senso della vista, il più difficile e complesso da interpretare.
Che “vedere” e percepire il “colore” fossero funzioni della psiche, che acquisiva le informazioni attraverso gli occhi, non era messo in dubbio da nessuno.
Ma ci si chiedeva: in che modo l’occhio svolge la sua funzione e come interagisce con il cervello?
Per avere la certezza che quello che si “vede” è reale (un paesaggio, il cielo stellato), è necessaria una forma di comunicazione tra l’oggetto ed il nostro sistema visivo. Sorge però una grave difficoltà: che cosa poteva entrare nell’occhio attraverso la “pupilla”, un piccolo foro che mediamente ha appena due millimetri di diametro, e conservare, integre, le informazioni che provengono dal mondo esterno?

 

Una prima teoria supponeva che da un oggetto del mondo reale partisse, ad ogni istante, una specie di “scorza”, sottilissima, eterea ed esattamente identica nella forma e nel coloro all’oggetto da cui è generata. L’insieme di queste impalpabili “scorze”, provenienti da oggetti diversi nel campo di vista, non dovevano interagire tra loro ma, allo stesso tempo, si dovevano contrarre per diventare così minuscole da potersi infilare nella pupilla. La spiegazione era talmente improbabile che nell’antichità non raccolse che pochi consensi. Un’ipotesi alternativa provenne dalle ricerche di prospettiva dei grandi matematici greci e latini che concepirono l’idea dei “raggi visuali”. I raggi visuali sono una sorta di bastoncini infinitamente sottili e rettilinei che vengono emessi dagli occhi dell’osservatore. L’esplorazione dell’ambiente attraverso questi raggi consente di portare agli occhi gli elementi che la psiche potrà poi interpretare come forme, posizione nella scena e colori degli oggetti. 

Questa teoria, benché non migliore della precedente, fu accettata per quasi 1500 anni.
Essa entrò in crisi quando, intorno all’anno Mille, l’arabo Alhazen fece un’osservazione assai comune, che però nessuno aveva mai prima segnalato: quella della “persistenza delle immagini sulla retina”.
Se guardiamo il Sole e poi chiudiamo gli occhi, continueremo a vederne l’immagine impressa nella retina per diversi minuti. I raggi visuali non giustificavano affatto questo fenomeno, pertanto la teoria non era sostenibile.
Alhazen ipotizzò allora una sostanziale modifica alla concezione delle “scorze”. Se un oggetto è costituito da un insieme di parti piccolissime, pressoché puntiformi, ognuna delle quali emette minuscole “scorze” che si propagano linearmente in ogni direzione, conservando la similitudine con il piccolo elemento che le ha emesse, allora esse potranno entrare senza difficoltà nella pupilla.
 

Ai tempi di Leonardo però, si continuava a parlare in via ipotetica di raggi visuali quando si argomentava di prospettiva e di “scorze” di Alhazen quando si tentava di giustificare il meccanismo fisiologico della visione. Le cose peggioravano drammaticamente quando l’obiettivo era di unificare, in un’unica teoria, prospettiva e visione: la mistura delle due concezioni generava autentici mostri.
Ne è un esempio la concezione secondo la quale dai corpi luminosi (il Sole, la fiamma di una candela..), doveva partire un non meglio definito “lumen”, capace di illuminare i corpi e a farne emettere delle scorze impalpabili, dette “specie” dotate della forma e dei colori dei corpi illuminati.


A conclusione di questa esposizione dell’ottica antica e medievale, dobbiamo dare atto che la teoria dei “raggi visuali”, nonostante le sue gravissime pecche teoriche, era stata applicata con un certo successo già da Euclide (III secolo a.C.) che se ne era servito per spiegare la riflessione della luce da parte degli specchi piani e concavi.
La rifrazione della luce, invece, mostrava difficoltà insormontabili. Soltanto Tolomeo, che aveva studiato la rifrazione atmosferica, ottenne qualche significativo risultato, senza però giungere ad una legge generale che fosse valida per angoli d’incidenza qualsiasi.
 

Quando poi nel XIII secolo apparvero le lenti di vetro per correggere la presbiopia, la teoria dei raggi visuali crollò, anche se i filosofi, per almeno i tre secoli successivi, non lo vollero ammettere. La qualifica “di vetro”, che si aggiungeva alla parola lente fu a lungo necessaria perché, altrimenti, il pensiero sarebbe subito corso a un bel piatto di lenticchie. Lenticchia, infatti, era il significato della parola lente, il che la dice lunga sull’ambiente dal quale scaturì l’uso che se ne fece per correggere i difetti visivi: quasi sicuramente esse furono create nelle botteghe vetrarie di Venezia e Firenze.


Qualche filosofo aristotelico non perse l’opportunità di esaminare questi strani dischetti curvi di vetro. Dopo che essi furono maneggiati e rimirati, ecco l’impietoso verdetto: le “lenticchie” producono effetti ingannevoli. Guardandoci attraverso, si vedono figure più grandi o più piccole di quelle reali, spesso capovolte, deformate e circondate da colori innaturali.
Dal punto di vista del filosofo è innegabile che le lenti possedevano inspiegabili proprietà “magiche”, tali da deformare la realtà. Alcuni decenni dopo la morte di Leonardo, il napoletano G.B. della Porta, in una sua opera intitolata, non a caso, Magia Naturalis, descriveva gli effetti dei sistemi ottici e delle lenti di ingrandimento, presentandoli però più come semplici curiosità al limite dell’illusionismo e della magia che a fenomeni coerenti con una teoria plausibile.

 

fonte: Coelum Astronomia - Direzione e Redazione - c/o Navitas Coworking via E. Ferrari, 9 62012

Appunti autentici di Leonardo sull'Astronomia

 

Gli scritti di Leonardo ci hanno spesso aperto una visione sul mondo e per quanto riguarda il mondo dell'astronomia, ha lasciato tracce sul suo pensiero e sulle personali riflessioni, alcune intime, circa il funzionamento del cielo e dei suoi misteri. Di seguito abbiamo raccolto i sui scritti, tratti dal Codice Atlantico, Leicester, Forster, Arundel

F. 41v

Tutto tuo discorso a concludere la terra essere una stella quasi simile alla luna; – e così proverai la nobilità del nostro mondo, così farai un discorso delle grandezze di molte stelle secondo gli altori.

 

 

Lei. 10v

Come la terra non è nel mezzo del cerchio del sole nè nel mezzo del mondo, ma è ben nel mezzo de sua elementi, compagni e uniti con lei; e chi stessi nella luna, quant'ella insieme col sole è sotto a noi, questa nostra terra coll'elemento dell'acqua parrebbe e farebbe offizio tal qual fa la luna a noi.

 

 

F. 25v

Ordine del provare la terra essere una stella. – In prima difinisci l'occhio; poi mostra come il battere d'alcuna stella viene dall'occhio, e perchè il battere d'esse stelle è più nell'una che nell'altra; e come li razzi delle stelle nascan dall'occhio...

 

 

An. C V. 25v (W 12669)

Il sole non si move.

 

 

C. A. 300r b

Il sole non vide mai nessuna ombra.

 

 

F. 34v

Del sole. – Dicano che '1 sole non è caldo, perchè non è di colore di foco, ma è molto più bianco e più chiaro. E a questi si pò rispondere, che, quando il bronzo liquefatto è più caldo, elli è più simile al color del sole, e quando men caldo, ha più color di foco.

 

 

F. 5r, 4v

Laude del sole. – Se guarderai le stelle, sanza razzi (come si fa a vederle per un piccolo foro fatto cola strema puntada la sottile agucchia, e quel posto quasi a toccar l'occhio), tu vederai esse stelle essere tanto minime, che nulla cosa pare essere minore; e veramente la lunga distanzia dà loro ragionevole diminuzione, ancora che molte vi sono che son moltissime volte maggiori che la stella, cioè la terra coll'acqua.

Ora pensa quel che parrebbe essa nostra stella in tanta distanzia, e considera poi quante stelle si metterebbe' e per longitudine e latitudine infra esse stelle, le quali sono seminate per esso spazio tenebroso. Mai non posso fare ch'io non biasimi molti di quelli antichi, li quali dissono che 'l sole non avea altra grandezza che quella che mostra; fra' quali fu Epicuro, e credo che cavassi tale ragione da un lume posto in questa nostra aria, equidistante al centro: chi lo vede, no 'l vede mai diminuto di grandezza in nessuna distanza. E le ragioni della sua grandezza e virtù le riservo nel quarto libro, ma ben mi maraviglio, che Socrate biasimassi questo tal corpo, e che dicessi quello essere a similitudine di pietra infocata; e certo chi lo punì di tal errore poco peccò.

Ma io vorrei avere vocaboli che mi servissino a biasimare quelli che voglion laldare più lo adorare li omini che tal sole, non vedendo nell'universo corpo di maggiore magnitudine e virtù di quello: el suo lume allumina tutti li corpi celesti, che per l'universo si compartano, tutte l'anime discendan da lui, perché il caldo, ch'èin nelli animali vivi, vien dall'anime, e nessun altro caldo né lume è nell'universo, come mosterrò nel cuarto libro. E certo costoro, che han voluto adorare omini per Iddei, come Giove, Saturno, Marte e simili, han faatto grandissimo errore, vedendo che, ancora che l'omo fussi grande quanto il nostro mondo, che parebbe simile a una minima stella, la qual pare un punto nell'universo; e ancora vedendo essi omini mortali e putridi e curruttibili nelle loro sepolture.

La Spera e Marullo laudan, con molti altri, esso sole.

 

 

C. A. 270v b

Il sole ha corpo, figura, moto, sprendore, caloree virtù generativa, lequali coseparte tutte dasé sanzasua diminuizione.

 

 

Ar. 205r

Il moto delli elementi nasce dal sole.

Il caldo dell'universo è generato dal sole.

Il lume e 'l caldo dell'universo vien dal sole, e 'l freddo e le tenebre dalla privazion del sole.

 

 

Ar. 94v

Continuato e larghissimo splendore del mare. – L'innumerabili simulacri che dalle innumerabili onde del mare refrettano dalli solari razzi in esse onde percosse, son causa di rendere continuato e larghissimo splendore sopra la superfizie del mare.

 

 

K. 1r

La luna densa e gra[ve], densa e grave, come sta, la luna?

 

 

Lei. 2r

Egli è manifesto segno che tal luna è vestita de' sua elementi, cioè acqua, aria e foco, e così in sé, per sé si sostenga in quello spazio come fa la nostra terra co' sua elementi in quest'altro spazio.

 

 

C. A. 190r a

Fa ochiali da vedere la luna grande.

 

 

Ar. 96v

La luna è corpo opaco e solido; e se per lo avversario e' fussi trasparente, e' non riceverebbe il lume del sole.

 

 

Ar. 28r

Vedi qui il sole alluminare la luna, specchio sperico, e quanto esso sole ne vede, tanto ne fa splendere.

 

 

Ar. 28r

O la luna ha lume da sé o no. S’ell’ha lume da sé, perchè non risplende sanza l’aiuto del sole? E s’ella non ha lume da sé, necessità la fa specchio sperico.

 

 

Ar. 94r

La luna non ha lume da sé, se non quanto ne vede il sole, tanto l'allumina; della qual luminosità, tanto ne vediamo quanto è quella che vede noi.

E la sua notte riceve tanto di splendore, quanto è quello che li prestano le nostre acque nel refretterli il simulacro del sole, die in tutte quelle che vedano il sole e luna si specchia.

 

 

C. A. 174v b

La terra e la luna si prestano li lumi

 

 

Ar. 114r

Qui tu hai a provare come la terra fa tutti quelli medesimi ofizi inverso la luna, che la luna inverso la terra.

 

 

F. 84r, 84v

Macule della luna. – Alcuni disse levarsi da essa vapori a modo di nugoli, e interporsi infra la luna e li occhi nostri: il che se così fussi, mai tal macule sarebbon stabili nè di sito nè di figura; e vedendo la luna in diversi aspetti, ancor che tal macule non fussin variate, esse muterebbon figura, come fa quella cosa che si vede per più versi.

Altri disson che la luna era composta di parti più e men trasparente, come se una parte fussi a modo d'alabastro e alcuna altra a modo di cristallo o vetro, che ne seguirebbe che '1 sole, ferendo colli sua razzi nella parte men trasparente, il lume rimarebbe in superfizie e così la parte più densa resterebbe alluminata e la parte trasparente mostrerebbe le ombre delle profondità sue oscure; e così si compone la qualità della luna. E questa openione, è piaciuta a molti filosofi e massime Aristotile; eppure ella è falsa openione, perchè in ne' diversi aspetti che si trovano spesso la luna e sole alli nostri occhi, noi vederèn variare tal macule, e quando si farebbono oscure e quando chiare ... nel plenilunio ... il sole illuminerebbe insino ne' fondi di tali trasparenzie e così, non generandosi ombre, la luna non ci mostrerebbe in tal tempo le predette macchie.

 

 

F. 85r

Èssi e detto che le macule della luna son create in essa luna da essere in sé di varia rarità e desità; il che se così fussi, nell'eclissi della luna i razzi solari penetrebbono per alcuna parte nella predetta rarità, il che, non si vedendo tale effetto, detta oppenione è falsa.


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